Dall’inizio della pandemia alcuni scienziati hanno sottolineato il ruolo fondamentale svolto dalla vitamina D nell’infezione COVID-19. Per questo motivo, insieme a numerosi studiosi, ho sottoscritto il seguente documento inviato alle Istituzioni del mondo scientifico di cui riporto i tratti più salienti a beneficio di tutti:
“…ci permettiamo di richiamare l’attenzione delle Istituzioni, del mondo scientifico e dell’opinione pubblica su un aspetto, già sollevato nei mesi scorsi1 che si è via via accreditato con numerose evidenze scientifiche: ci riferiamo alla carenza di vitamina D, della quale sono noti da tempo gli effetti sulla risposta immunitaria, sia innata che adattiva2 e che si sviluppa nei pazienti affetti da COVID-19 in conseguenza di differenti meccanismi fisiopatologici3, ma forse anche a seguito di una ridotta disponibilità di 7-deidrocolesterolo e di conseguenza del suo metabolita colecalciferolo, per la marcata riduzione della colesterolemia osservata nei pazienti con forme moderate o severe di COVID-194.
Ad oggi è possibile reperire su PubMed circa 300 lavori, editi nel 2020, con oggetto il legame tra COVID-19 e vitamina D, condotti sia retrospettivamente5, che con metanalisi6, che hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da COVID-19, soprattutto se in forma severa7 e di una più elevata mortalità (OR 3,87) a essa associata8 tutti questi dati forniscono a nostro giudizio interessanti elementi di riflessione e di ripensamento su un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana, che in Italia è in larga misura carente di vitamina D9. È stata infatti largamente evidenziata, con un’unica eccezione riportata in un lavoro, peraltro non ancora pubblicato e condotto su pazienti in uno stadio molto avanzato della malattia10, l’utilità della somministrazione di Vitamina D (in prevalenza colecalciferolo) a pazienti COVID-19.
A scopo propositivo, sono stati selezionati alcuni dati, ottenuti con adeguata sperimentazione clinica, che a nostro parere, nonostante alcuni limiti metodologici, sono degni di attenzione da parte delle autorità sanitarie, al fine di considerare l’utilizzo della Vitamina D sia per la prevenzione che per il trattamento dei pazienti COVID-19.
- In uno studio osservazionale di 6 settimane su 154 pazienti, la prevalenza di soggetti ipovitaminosici D (<20 ng/mL) è risultata del 31,86% negli asintomatici e del 96,82% in quelli che sono stati poi ricoverati in terapia intensiva11.
- In uno studio randomizzato su 76 pazienti oligosintomatici, la percentuale di soggetti per i quali è stato necessario, successivamente, il ricovero in terapia intensiva, è stata del 2% (1/50) se trattati con dosi elevate di calcifediolo e del 50% (13/26) nei pazienti non trattati12.
- Uno studio retrospettivo su oltre 190.000 pazienti ha evidenziato la presenza di una significativa correlazione tra la bassa percentuale dei soggetti positivi alla malattia e più elevati livelli circolanti di 25OHD13.
- In 77 soggetti anziani ospedalizzati per COVID-19, la probabilità di sopravvivenza alla malattia, stimata con la curva di Kaplan–Meier, è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo, assunto nell’anno precedente alla dose di 50.000 UI al mese, oppure di 80.000-100.000 UI per 2-3 mesi, oppure ancora di 80.000 UI al momento della diagnosi14.
- Nei pazienti PCR-positivi per SARS-CoV-2, i livelli di vitamina D sono risultati significativamente minori (p=0.004) rispetto a quelli dei pazienti PCR-negativi (dato poi confermato da altri lavori in termini di maggiore velocità di clearance virale e guarigione per coloro che hanno livelli ematici più elevati di vitamina D15.
- In una sperimentazione clinica su 40 pazienti asintomatici o paucisintomatici è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% (10/16) dei pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo (60.000 UI/die per 7 giorni), contro il 20,8% (5/24) dei pazienti del gruppo di controllo. Nei pazienti trattati è stata inoltre riscontrata una riduzione significativa dei livelli plasmatici di fibrinogeno16.”
Sulla base dei risultati di questi e di altri studi, sono state formuliate le seguenti considerazioni:
- Anche se sono necessari ulteriori studi controllati, la vitamina D sembra più efficace contro il COVID-19 (sia per la velocità di negativizzazione, sia per l’evoluzione benigna della malattia in caso di infezione) se somministrata con obiettivi di prevenzione17, soprattutto nei soggetti anziani, fragili e istituzionalizzati.
- Il target plasmatico minimo ottimale del 25(OH)D da raggiungere in ambito PREVENTIVO sarebbe di 40 ng/mL18, per ottenere il quale occorre somministrare elevate dosi di colecalciferolo, anche in relazione ai livelli basali del paziente, e fino a 4000 UI/die19.
- In ambito terapeutico, gli studi randomizzati indicano l’utilità di un’unica somministrazione in bolo di 80.000 UI di colecalciferolo20, oppure di calcifediolo (0,532 mg il 1° giorno, 0,266 mg il 3°, il 7° giorno e poi una volta alla settimana)21 oppure ancora di 60.000 IU di colecalciferolo per 7 giorni, con l’obiettivo di raggiungere 50 ng/mL di 25 (OH)D22.
Il documento si è concluso con i seguenti suggerimenti:
- l’attivazione di una consensus conference e/o di uno studio clinico randomizzato e controllato, promosso e supportato dallo Stato, sull’efficacia terapeutica della Vitamina D, a pazienti sintomatici o oligosintomatici, secondo uno dei seguenti schemi:
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- Colecalciferolo per via orale 60.000 UI/die per 7 giorni consecutivi
- Colecalciferolo in monosomministrazione orale 80.000 (nei pazienti anziani
- Calcifediolo 0.532 mg (106 gocce) nel giorno 1 e 0,266 mg (53 gocce) nei giorni 3 e 7 e poi in mono- somministrazione settimanale.
- Con la somministrazione preventiva di Colecalciferolo orale (fino a 4000 UI/die) a soggetti a rischio di contagio (anziani, fragili, obesi, operatori sanitari, congiunti di pazienti infetti, soggetti in comunità chiuse); segnaliamo che in questo ambito l’utilizzo della vitamina D che, anche ad alte dosi, non presenta sostanziali effetti collaterali23, è comunque utile per correggere una situazione di specifica carenza generale della popolazione, soprattutto nel periodo invernale, indipendentemente dalla infezione da SARS-CoV-2…”.
Seguono le firme del prof. Giancarlo Isaia dell’Università di Torino e altri 60 eminenti colleghi.
Roma, 8 dicembre 2020
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